martedì 9 luglio 2013

I prigionieri di guerra austro-ungarici nel campo di concentramento di Avezzano





Nel corso della prima guerra mondiale i  prigionieri austro - ungarici provenienti dai vari fronti vennero indirizzati in campi di prigionia sparsi in tutta la penisola.
Su precisa indicazione del ministero dell’Interno, inizialmente i prigionieri non furono utilizzati per alcun tipo di lavoro manuale all’esterno dei campi, probabilmente per paura che l’immissione sul mercato del lavoro di una numerosa manodopera a basso costo potesse provocare tensioni sociali in uno scenario socio – economico già sconvolto dal conflitto. Tuttavia questa disposizione non fu mantenuta per troppo tempo, ben presto anche gli italiani si decisero ad adottare le disposizioni contenute nell’articolo 6 del Regolamento dell’Aja che ammetteva l’impiego di prigionieri di guerra in lavori esterni. A partire dal 1916, soprattutto in seguito alle pressanti richieste provenienti dalla borghesia agraria, i soldati prigionieri furono utilizzati con continuità nei lavori agricoli e, sia pur in misura ridotta, anche nell’industria. Furono queste principalmente le ragioni che indussero le autorità italiane a trasferire un cospicuo numero di  prigionieri austro-ungarici nella cittadina abruzzese di Avezzano, principale centro e capoluogo della Marsica, in provincia dell’Aquila.
 Lettera partita dal campo di concentramento di Avezzano per Beremend in Baranya (Ungheria), timbri di censura italiani e austriaci.

Il campo di Avezzano, oltre che essere un posto di reclusione opportuno in virtù della lontananza dagli scenari bellici, rispondeva a precise opportunità pratiche. In primo luogo l’esigenza di reperire manodopera, non necessariamente specializzata, da adibire alle  necessità agricole dei campi posti nella piana del Fucino, una superficie di circa 15.000 ettari strappata nel periodo tra il 1852 e il 1876 alle acque dell’omonimo lago, rimasta in gran parte incolta durante il periodo bellico a causa del reclutamento degli uomini validi per l’inquadramento nell’esercito. A queste motivazioni bisogna aggiungere la necessità di provvedere alle opere di ricostruzione seguenti al gravissimo terremoto che sconvolse la Marsica il 13 gennaio del 1915.


 La necessità di effettuare i necessari lavori atti a restituire un minimo di normalità alla città si scontrava però con la carenza di lavoratori validi a causa dei reclutamenti dovuti alle esigenze di guerra. Quindi nella tarda estate del 1916 venne istituito ad Avezzano  un campo di prigionia destinato ad accogliere prigionieri di guerra dell’esercito dell’Austria-Ungheria.
Posto alla periferia Nord di Avezzano il campo occupava una superficie pari a circa 30 ettari divisi in quattro distinti settori; le prime costruzioni furono realizzate utilizzando materiale ricavato dalle baracche adoperate in precedenza per fronteggiare l’emergenza provocata dal terremoto, in seguito le baracche furono sostituite da strutture in muratura e legno. Il campo poteva  ospitare 15.000 prigionieri e  circa 1.000 tra soldati semplici, sottufficiali e ufficiali del Regio Esercito destinati alla sorveglianza dei reclusi.



Fronte e retro di lettera con testo dal campo di concentramento di Avezzano per Beremend in Baranya (Ungheria), timbri di censura italiani e austriaci.



Nel campo le condizioni di reclusione erano piuttosto dure, come d’altronde in tutti i campi di concentramento organizzati dalle varie forze belligeranti, compresi quelli sparsi sul territorio italiano. Nonostante che la convenzione dell’Aja firmata prima dello scoppio della guerra stabilisse condizioni minime di sussistenza e di rispetto, la situazione nei campo è drammatica.  Il regime di sorveglianza, le condizioni igieniche, il vitto, provocarono proteste da parte del governo austriaco e della stessa opinione pubblica dei territori della duplice monarchia.
Alle condizioni di detenzione, già dure di per sé, si aggiunse ad aggravare la situazione l’epidemia di Spagnola tra il 1918 e il 1919. I prigionieri del campo di Avezzano vennero utilizzati inizialmente per attività legate allo sgombero delle macerie e per lavori di pubblica utilità legati alla ricostruzione di strade ed opere pubbliche. Da un certo momento in poi i prigionieri vennero adibiti anche al lavoro dei campi; la clausola che ne vietava l’utilizzo in concorrenza con il lavoro libero veniva aggirata facendo prendere in carico i  prigionieri da parte dell’amministrazione comunale di Avezzano che poi li “girava” ai privati, in particolare ai principi Torlonia. A questo punto stupisce la singolarità delle richieste riguardo ai prigionieri – lavoratori, sembra infatti che le richieste maggiori riguardassero specialmente prigionieri di nazionalità rumena: forse per una maggiore facilità di comunicazione rispetto a tedeschi, cechi e ungheresi, forse per una maggiore attitudine allo svolgimento di mansioni dure.
 I prigionieri presenti ad Avezzano appartenevano a tutte le nazionalità presenti nel composito universo dell’Impero Austro-Ungarico, quindi austriaci, ungheresi, romeni originari della Transilvania, del Banato e della Bucovina. Con il passare del tempo, e per le motivazioni accennate,  il campo assunse però una fisionomia ben più delineata. Ci fu comunque un avvenimento che determino una svolta decisiva: dopo il congresso delle nazionalità oppresse, che riunì a Roma i rappresentanti delle principali nazionalità comprese nella monarchia austro-ungarica, tenutosi tra il 27 marzo e il 9 aprile del 1918, Avezzano divenne il principale centro di aggregazione dei romeni transilvani e nucleo generatore di quella che fu la cosiddetta Legione Romena.
Del resto l’organizzazione di prigionieri austro – ungarici in reparti combattenti al fianco dell’impresa non era una novità. Già nel 1917 reparti cecoslovacchi, formati da prigionieri di guerra, erano stati organizzati dall’intesa in Francia, dove vennero utilizzati sul fronte occidentale, in Russia contro i bolscevichi, e anche in Italia dove i battaglioni lavoratori cechi vennero utilizzati dietro le linee dell’Adige oppure sull’altipiano dei Sette Comuni il 24 settembre 1918 dove i nuclei arditi cechi andarono all’assalto della Cima tre Pezzi con i bersaglieri.
 Ai prigionieri si offriva l’opportunità di assumere il nuovo status di alleati, e all’esercito di rimpinguare le divisioni stremate dal conflitto con un contingente reclutato tra i circa 20000 prigionieri austro – ungarici di nazionalità romena. A Cittaducale, in provincia di Rieti, il 6 giugno 1918 venne creato un Comitato di Azione dei Romeni di Transilvania, Banato e Bucovina per iniziativa dell’ex ministro romeno rifugiato in Italia, il principe Dimitrie Ghica, dei vari comitati pro Romeni sorti un po’ ovunque nella penisola  e con l’appoggio di un gruppo di ufficiali del’esercito italiano. I rappresentanti romeni in Italia riuscirono ad ottenere il 15 ottobre 1918 dal ministro della Guerra Zuppelli la costituzione di una Legione Romena posta sotto il comando del generale di brigata Luciano Ferigo. Precedentemente, tra il giugno e il luglio del 1918, quando ormai la guerra volgeva al termine, a ponte di Brenta, vicino Padova, si erano già costituite tre compagnie romene comprendenti 830 soldati e 13 ufficiali. Queste, inquadrate nella VIII, V e IV Armata italiane presero parte a eventi bellici importanti, come la battaglia del Monte Grappa e quella decisiva di Vittorio Veneto. In seguito a tutti questi avvenimenti iniziò un graduale lavoro di concentramento di tutti i prigionieri austro – ungarici di nazionalità romena nel campo di concentramento di Avezzano. Una volta giunti in Abruzzo, i romeni ottenevano un inquadramento militare e il necessario equipaggiamento da guerra, quindi venivano sottoposti a un periodo di addestramento a cura di ufficiali del Regio Esercito. La maggior parte dei Romeni concentrati ad Avezzano accolse di buon grado l’opportunità di essere inquadrata in una Legione combattente a fianco dell’intesa: un po’ a causa dei sentimenti antimagiari e antitedeschi già presenti nelle zone di provenienza dei prigionieri stessi (che come si è detto erano la Transilvania, il Banato e la  Bucovina, territori appartenenti al’epoca alla duplice monarchia) un po’ per il risentimento nazionale dovuto all’occupazione della Romania da parte dei Tedeschi, in seguito alla capitolazione di Bucarest il 6 dicembre 1916. Infatti occorre a questo punto ricordare che la Romania era entrata nel conflitto il 28 agosto del 1916 con la dichiarazione di guerra all’Austria a cui seguirono, tra il 28 agosto e il 1 settembre, le dichiarazioni di guerra al paese danubiano da parte di Germania, Turchia e Bulgaria.
 In una prima fase del conflitto le truppe romene avanzarono fino ai Carpazi, ma una controffensiva austro-tedesco-bulgara portò alla riconquista della Transilvania e all’occupazione del paese.
Marzo 1918, occupazione tedesca della Romania: francobolli di Germania del 1902 soprastampati “Rumanien” e nuovo valore in Bani. 



Settembre 1918, occupazione tedesca della Romania: francobolli di Romania del 1916 soprastampati M.V.i.R. – Military Verwaltung in Rumanien (Amministrazione Militare in Romania.


A queste motivazioni occorre aggiungere anche considerazioni di carattere più pratico. Il trattamento riservato ai Romeni era decisamente migliore di quello a cui invece erano sottoposti gli altri prigionieri austro – ungarici: erano frequenti i banchetti offerti dai comuni del circondario, così come le gite organizzate in varie località limitrofe. Maggiore era anche la libertà di cui i Legionari godevano, più o meno simile a quella dei militari italiani inquadrati nel regio Esercito. Infatti che al termine del conflitto alcuni di essi convolarono a nozze con ragazze del posto e rimasero definitivamente in Italia.  Tuttavia queste disparità di trattamento, unite ai sentimenti antimagiari di quanti avevano acconsentito a combattere a fianco dell’Intesa, non  tardarono ad alimentare un clima sempre più teso tra i Romeni e gli altri prigionieri austro – ungarici: le risse erano all’ordine del giorno, e la scarsa guarnigione italiana faticava a placare gli animi. L’episodio più grave si registrò il 12 ottobre del 1919, quando un gruppo di legionari incendiò le baracche destinate ai prigionieri ungheresi; i carabinieri di guardia tardarono ad intervenire e il bilancio fu gravissimo: due soldati magiari persero la vita e quarantacinque rimasero feriti. Appariva quindi chiaro che, terminate le incombenze della guerra e venuta meno l’utilità di questi militari, la Legione Romena andava smantellata, e insieme a essa tutti i campi di concentramento, indipendentemente dalla nazionalità dei reclusi. I primi rimpatri dal campo di Avezzano iniziarono solo nell’autunno del 1919, i primi a partire furono proprio i Romeni: un primo contingente parti dal porto di Taranto a bordo del piroscafo Meran alla volta del porto di Galati.
Per i Legionari Romeni si aprivano nuovi scenari bellici: la guerra contro le formazioni bolsceviche e contro gli irredentisti magiari. 

 Cartolina commemorativa della Legione Rumena.




















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